Archivio Piccolo Teatro Milano Archivio multimediale del Piccolo Teatro di Milano - fotografie bozzetti manifesti
 
               
Archivi
 
Gli archivi del Piccolo Teatro


I giganti della montagna - 1966-67

autore: Luigi Pirandello
regia: Giorgio Strehler
scene: Ezio Frigerio
costumi: Ezio Frigerio, Enrico Job
musiche: Fiorenzo Carpi
maschere: Carlo Schiavon, Luisa Spinatelli
    


Appunti di regia I giganti della montagna 1966

Appunti sulla seconda edizione dello spettacolo I giganti della montagna

Appunti di regia della seconda edizione de I giganti della montagna

Un inizio, un sipario di ferro, chiuso, ermetico. Un sipario senza fantasia: forza, struttura, materia spietata (tenebra e pietra).

 

Si alza adagio, mentre un filo di musica esce da sotto, scivola fuori, a filo delle larghe tavole di legno del palco, scoprendo una scena tenue di verde spento, che sale tra l’erba argentea, rasa dalla luce del crepuscolo, fino ad un magico volume, trasparente e misterioso al tempo stesso.

 

Appare chiaro, come sospeso nel vuoto, aria, sera; il dolce viola della sera di un’Italia fonda e tenera, inventata su temi e toni, appena accennati, di una pittura italica metafisica e reale insieme. Trema a un poco d’aria, palpita come una cosa viva, con brevi sussulti. Oppure sta, in un’immobilità assoluta. Un tono di colore, un muro o una casa inventata. Un lenzuolo popolare che diventa casa e teatro. La casa fantasma. La casa teatro. La casa sipario.

 

I Giganti: una recita davanti, dietro e intorno a un sipario. Il mistero, la levità del sipario. La semplicità di un lenzuolo teso e palpitante nell’aria della sera. I rifugi misteriosi, le protezioni dell’infanzia. I giochi di luce con la lampada accesa sotto le coperte. Le trasparenze, le ombre. Il teatro, il carnevale, il gioco del cigno con la mano, la lanterna magica nel silenzio di una stanza piena d’ombra. Il sipario che apre e chiude, vela e rivela.

 

Il sipario che diventa mucchio informe al suolo. Il gioco del sipario piegato, come le donne dopo che hanno stirato le lenzuola. "Larsenale delle apparizioni": il mistero del teatro nella sua completezza. Luogo in cui le cose si fanno da sé, dove tutto è possibile. Ricettacolo di tutti gli "strumenti" del teatro: attori, mimi, burattini, fantocci, marionette, bambole, trucco, illusione, scene, costumi, schermi, macchine, oggetti, cantinelle, artifici, giochi, soluzioni sonore e visive, che animano e danno vita, nelle sue diverse possibili "forme" (generi), allo spettacolo, alla rappresentazione: teatro di prosa, avanspettacolo o varietà, cinema, mimo, teatro musicato. "Un sottopalco". Simbolo faticoso, oscuro e massiccio della teatralità, mostruoso, pesante meccanismo da cui tutto può nascere. Misterioso e crudele nella sua arida immensità.

 

Contrassegna la fredda materia da cui con fatica e rischio si cava il sangue dallarte. "Teatro-macchina".

 

Si contrappone alla levità aerea del "palcoscenico" vuoto. Il vuoto della partenza creativa, del dar vita alla poesia, dellincarnare nellinterpretazione.

 

Limpenetrabile ermetico mistero del sipario chiuso che sprigiona, dischiudendosi, calore, tenerezza, fantasia, apparizioni: "il teatro poesia". "Il sipario fondale" per La favola del figlio cambiato. Due lembi di un sipario di tela, cuciti insieme, con apertura simile ad una ferita, che un tempo fungeva da siparietto neutro. Colore grigio rosato, slavato da innumerevoli piogge e innumerevoli soli.

 

Povero e antico, con qualche sdrucitura ricucita con precisa arte, ma senza nascondere nulla, come gli strappi delle vele. Viene spiegato e sospeso ad una corda, con destrezza di acrobati, secondo un rituale automatico, ma non per questo meno pieno di inconscio amore. Tocca appena il suolo, si incurva lievemente al centro senza pieghe scomposte. E il ricalco piccolo e reale, gli stessi segni, del grande telone-villa della "scalogna"-sipario. Rarefazione quindi della scenografia lungo larco della commedia, nel senso di una progressiva purezza strutturale e pittorica, conseguente al progressivo scarnificarsi del linguaggio pirandelliano: dalle prime parole alle ultime "Ho paura, ho paura", al significato gestico del "racconto finale" mimato, allultimo tragico silenzio.

 

I Giganti: forse lunica vera grande commedia sul teatro.

 

Una commedia che propone e ripropone la problematicità teatrale nelle sue varie possibili forme e riassume in fatto teatrale la vita stessa del teatro. Diario di teatralità. Diversi nuclei di teatro. Diversi piani di teatro. La "scalogna", possibile schema di teatro, agnostico, fine a se stesso, avulso dalla realtà. Un teatro globale dove tutto avviene, inventato non per un pubblico, ma come puro gioco. (Viene in mente linfantilismo del teatro, il "teatro-gioco" dei bambini; forse lunico teatro serio; dimenticato e cancellato dallabitudine, dalla pratica quotidiana del mestiere che appanna la fantasia, la capacità di inventare).

 

La "scalogna", vista come teatro preesistente, in cui confluisce un bestiario strano di umanità rifiutata o allontanata dopo un rifiuto. Ciascuno per diversi motivi, per un diverso processo, secondo una gradazione, determinata dalle circostanze o dalla volontarietà. Non il mondo della follia o della morte (fantasmi), ma il regno della poesia (poesia-teatro), dellinnocenza, della purezza, che offre lincanto positivo-negativo del "non impegno".

 

Rinunciati, dunque, nella realizzazione, i valori plastici in favore di una disperata ma dolce rarefazione, ispirata ad una pittura metafisica, sulla scorta dei Carrà, dei Rosai, dei Sironi, al fine di far intuire il tessuto nazional-popolare, paesano e contadino e, al contempo, il mistero isolano ai limiti fra realtà e irrealtà… Conseguentemente gli "scalognati" dovrebbero risultare realistici, cioè "possibili" popolari, ma anche "eccezionali", casi limite, invenzioni.

 

Altro nucleo di teatro: "La compagnia dei comici": che riassume e scompone i diversi aspetti della "teatralità". Gli attori devono apparire realistici, identificabili, plausibili come classe, piccolo-borghese, inequivocabilmente riferibili ad una precisa categoria di mestiere. (Minima componente aristocratica per il conte). Di provenienze diverse: isolane, mitteleuropee, con leggere cadenze e inflessioni dialettali. Accusano i segni della deformazione professionale, ma non per questo debbono diventare maschere di attori, o evocare ruoli schematici. Tipi di teatro, uniti tutti dal decadimento e dalla pena, dal patetico che c’è sempre nel comico finito e allo stremo. I trucchi sfatti simboleggiano il mostruoso, il laido, l’osceno contro natura del teatro., ma al tempo stesso la sua terribilità, il suo misterioso, il gioco profondo del travestirsi in un altro, di essere altri, il dolore, la voluttà di non poter essere altro che altri.

 

Parlano il tipico linguaggio, un poco retorico, degli attori; il loro tono è penosamente e fintamente entusiasta. La squallida entrata d’inizio, suggerisce il rituale delle congratulazioni in "camerino" al termine dello spettacolo. Sorridono con occhi disperati, però ammiccano con gesti di piacere, baci sulla punta delle dita, mani che segnano l’aria, ostentano godimento artistico, abilità d’interlocutori. Moderata curiosità che confina con l’indifferenza. Egoismo appena mascherato da un rituale antico.

 

L’incontro tra i due gruppi deve apparire incommensurabile. I comici portano un peso di tensione, di disperazione, di lotta quotidiana, che urta contro il distacco, la pulizia, la tenerezza degli "scalognati". "Il gioco di rifrazione nel teatro" di Pirandello è e deve risultare chiaro poeticamente. Non solo dialetticamente.

 

La commedia si apre con un fatto teatrale: gli "scalognati"… "fanno" "i fantasmi", quindi "teatro", primitivo, elementare, "per i comici". Poi i comici, "artisti della scena", appaiono, uno dopo l’altro, sospesi su un altro palcoscenico, più alto del reale, che esalta la loro teatralità, e recitano teatro per gli "scalognati". Il "carretto" di Ilse diventa, per fantasia, un ulteriore piccolo "palcoscenico" per la recita di un testo poetico.

 

Il pubblico dalla platea guarda così gli "scalognati", che diventano pubblico per i comici, i quali a loro volta guardano Ilse. Il rapporto si preciserà ancora come "triplicazione formale" nell’azione mimata del finale: teatralità per gli altri, poesia offerta al rifiuto, all’indifferenza, nella rifrazione comici-pubblico/società-Giganti.

 

E ancora la recita si spezza e si rappresenta il dramma privato dei comici fra di loro.

 

La storia di un poeta morto per amore, il viaggio di Ilse e il conte… La scena deve essere pirandelliana in modo quasi eccessivo: contorcimento di frasi e di corpi, concerto di rapidità e di pena.

 

Lacerazione di una verità esibita impudicamente a spettacolo tra e per una collettività-pubblico.

 

Ecco allora la "triplicazione sostanziale".

 

"Uomini", che essendo "attori", si comportano da attori, recitano la parte di attori nella vita (figurazioni di Ilse donna-attrice-madre). Contrasto stridente col mondo essenziale della "scalogna". "Attori" che, in quanto tali, recitano, interpretano "personaggi" (Favola del figlio cambiato).

 

Esseri che danno corpo ad altre situazioni teatrali. "Dilaniandosi" reciprocamente: "teatro-vita". "Mascherandosi". Infiammati dalla scoperta di un fantastico trovarobato, cedono allincanto del travestimento, proiettando inconsciamente sui costumi indossati la propria agognata realtà, lamore puro, la sottomissione drammatica non più riconoscibile. Non sanno di amare il teatro proprio perché lo amano ancora. Si spiega così la funzione demistificatrice della "mascherata" come poetica proiezione di sé. "Teatro-carnevale". E ancora "sognandosi" nei panni dei personaggi interpretati; vittime della sonnambula febbre teatrale che li danna e li condiziona. Duplicazione fisica dellattore che resta "attaccato" alla "parte" contro la propria volontà.

 

Proiezione teatrale della coscienza. "Teatro onirico".

 

Nei due diversi mondi teatrali, proposti dalla commedia: la "scalogna" e la compagnia della Contessa, si riflette leterna tematica poesia-teatro, il rapporto dialettico "testo-rappresentazione". Da un lato lideale pensato, il puro spirito scaturito dalla fantasia del poeta (Fantocci, Cotrone), "teatro puro" (letto), dallaltro la rappresentazione, come fase essenziale, determinante dellopera teatrale (il teatro è tale in quanto lo si fa), come ragione, scelta di un "genere"; lo spettacolo, dunque, che implica la responsabilità dellinterprete, necessariamente condizionato dalle incertezze, dai rischi, dagli errori di valutazione e dinterpretazione (sia in eccesso che in difetto), e che resta comunque legato ad una realtà concreta di mezzi, di cose, di uomini, di pubblico. "Teatro rappresentato". (Compagnia Ilse)

 

Ma oltre che offrire dialetticamente incarnata lopposta ideologia sul teatro, Pirandello schematizza, nei personaggi di Ilse, Cromo, Cotrone, i "diversi modi" di "fare il teatro", di essere in palcoscenico. "Ilse": raffigura la missione, il martirio. Una lezione di purezza. Sganciata dalla contingenza, è votata ai valori dellopera, che offre anche contro il pubblico (ma che pur sempre esiste), continuamente su di un palcoscenico, dal quale scenderà solo con la morte. "Teatro missione". "Cromo": potrebbe indicare tra le molte componenti l"onorato" mestiere trascinato quotidianamente.

 

La lezione del professionismo umile, faticoso, ingrato, che prescinde da ogni giudizio critico, ma che comporta un amore profondo e inconsapevole. "Teatro mestiere". "Cotrone": riassunto di tutte le possibili matrici del teatro. Non ultima la lezione di fede nelle possibilità della poesia. Linvito a credere come bambini nel gioco, negli artifici dellarte, senza chiedere ragioni, senza definire… "Teatro pura invenzione".

 

E forse riflette, al contempo, la faccia speculativa del Pirandello classico, nel brillare assoluto delle contrapposizioni forma-sostanza, apparenza-verità, magia-realtà. Pur avendo rifiutato la battaglia per vivere volontariamente nella "scalogna", sembra appartenere virtualmente alla compagnia dei comici, segnando così il limite d’ incontro, il punto di sutura drammatica tra i due mondi. Il finale non scritto dei Giganti offre forse la possibilità di far divenire un’opera, per tanti versi datata e ineluttabilmente legata a certe cadenze di stile tipiche ad un certo momento storico letterario italiano, qualcosa che ancora può appartenerci.

 

La serie di interrogativi, non risolti nei termini estremi, nemmeno dopo il trascorrere di tanta storia, proietta il senso di tutta l’avventura direttamente nel nostro stesso esistere contemporaneo. Non è infatti che il mondo dei Giganti stia alle nostre spalle. I Giganti sono ancora tra noi, dentro di noi, davanti a noi, in un perenne agguato fatto di mille tentazioni e prevaricazioni, agguati del sistema, dei comuni retaggi della vita quotidiana; talché la storia della fantasia, poesia-teatro dei poveri comici, teneramente, ciecamente e, diciamolo pure, astoricamente legati all’arte, come unica salvezza, è storia aperta.

 

E’ errata la risoluzione fantastica-anarchica di rifiuto degli "scalognati", è insufficiente e per altri versi errata la lotta impari e quasi maniacale di Ilse e dei Comici, che testardamente, col sacrificio di sé consumato nella poesia, tentano di riformare il mondo; è errato e mostruoso, anche nell’incosciente innocenza della brutalità, il non capire, l’evadere, lo sprofondare nell’istinto, dei Giganti (schiavi ottusi ed anonimi di altri ancor più irraggiungibili Giganti), che soffoca e rinnega l’atto poetico. Come comunicare al pubblico contemporaneo, al di là delle parole non scritte, nel silenzio, la reciprocità delle sconfitte, i differenti gradi e stati dei diversi modi di essere?

 

"I Giganti vincono sempre. I Giganti perdono sempre".

 

Potrebbe essere la formula che inchioda il nucleo ideologico della commedia e che suggerisce la coerente soluzione al dramma incompiuto. Ilse rinuncia all’assoluto, al non essere, per combattere la sua battaglia in mezzo agli uomini, tra i Giganti. E i Giganti la uccideranno.

 

Non è un rifiuto cosciente, responsabile, positivo, ma la gelida indifferenza, l’assenteismo che ucciderà con Ilse la poesia. Lo schema teatrale Ilse-teatro/Giganti-pubblico rispecchia il rapporto poesia-società.

 

I Giganti siamo noi, in agguato nella vita di ogni giorno, ogni qual volta ci rifiutiamo alla poesia e, con la poesia, all’uomo.

 

Ecco il senso e la ragione della scelta di un testo che acquista nuova luce dal "contesto" storico nel quale ci muoviamo: una società che si lascia sempre più condizionare dalle proprie stesse strutture, una società che diviene ogni giorno più insensibile e refrattaria al richiamo dell’arte, e sembra quasi volersi rendere incapace di far poesia, di capire poesia, di amare la poesia.

 

Note inedite

Si alza il sipario di ferro del teatro. Materia spietata e rivela lentamente, mentre la musica viola fuori dal sipario appena si alza, da sotto, a filo delle tavole larghe di legno del palco, una scena tenue di verde spento che sale tra lerba argentea, rasa dalla luce del crepuscolo fino ad un magico volume, trasparente e misterioso al tempo stesso nella sua impenetrabilità di sipario chiuso.

 

A sinistra tra un lungo palo trattenuto da corde come le tende dei circhi. Una sedia di paglia gialla, Nel fondo il nero viola della notte che scende.

 

UnItalia misteriosa e fonda e tenera al tempo stesso, inventata su temi e toni appena accennati di una pittura metafisica e reale al tempo stesso. Trasparenza di lanterna magica, paradisi dellinfanzia lontana, nel volume della casa. Una figura di donna vestita di nero, antica, seduta, con le mani sotto il mento, i gomiti sulle ginocchia, fissa il vuoto nella platea.

 

Più alto a destra una forma distesa nellerba, supina, mani dietro la testa, guarda in alto. E una forma infantile, silenziosa ed immobile, più che una forma un volume. Forse un bambino.

 

Alto silenzio. Improvviso tramestio teatrale, piedi e fruscio di vestiti, un battito di mani ripetuto, qualche fischio tenue che avvicina, voce che chiama. Breve movimento delle due figure. La donna lentamente gira la testa verso la quinta. Appare inclinata sul busto, come lapparizione di giocattolo. La testa del bambino, estatica e indefinibile.

 

Entra di corsa quasi a filo della ribalta, una corsa lieve ed affranta, una figura pallida, quasi evanescente, biondo, di capelli radi, viso pallido con grandi occhi sensitivi, indossa lidea di un frac, con una piccola sciarpa violacea, pirandelliana, come quella del figliastro dei "Sei personaggi", intorno al collo, un tono lontano ed ironico nella sua povertà che echeggia quello del personaggio borghese del teatro pirandelliano, degli amanti, degli attori giovani. Milordino: Gente a noi, gente a noi! Subito lampi, scrosci e la lingua verde, la lingua verde sul tetto!

 

Di colpo la scena si anima di suoni e movimento, tutti ancora in punta di piedi in una progressione tenera ed affannata.

 

La donna vestita di nero, raccoglie il suo scialle e corre verso lalto gridando con un verso di gallinella smarrita, il bambino corre verso il basso incontro a Milordino che scruta con la mani in tasca, pallido, giù giù nel fondo della platea.

 

Non è un bambino, ma un nanetto, che indossa uno strano impreciso abito, forse festivo, da marinaio con scarpe da contadino, una maglia povera e grigia, un berretto sdrucito da uomo grande. I due seguono con lo sguardo un immaginario viaggio di gente che scorre nel fondo della platea, fino a sparire alla destra e continuare il viaggio prima in quinta, poi sul fondo della scena.

 

Da dietro la casa-sipario appaiono grandi ombre, lievi, che si muovono, si allontanano e si avvicinano. Avvicinandosi alla porta segnata sul sipario, si precisano in figure umane, nel fondo perdono i contorni reali.

 

Voci e richiami dallinterno del sipario con i personaggi sulla scena. Appaiono e spariscono rapidi dal taglio del sipario al centro, e dai lati altre figure: una donna enorme e tenera, con qualche lustrino antico sul vestito che ricorda qualcosa dei circhi e dei varietà di un tempo, un ombrellino di carta colorata, chiuso che poi si apre di celeste e dacqua, sbiadito dal sole, manico davorio consumato.

 

Un vecchio lungo, magro, con grandi occhi azzurri, larghe mani tormentate che parla con una voce grave, solenne, da campana. Infine quella di un "mago" di paese; con locchio sognante e malizioso, vestito come un contadino e al tempo stesso, un prestigiatore di spettacoli darte varia per piccoli paesi.

 

Porta con sé la solitudine del creatore di fuochi artificiali dei paesi del sud. Gli mancano alcune dita e non può più fare incantesimi da varietà.

 

Biondo ingrigito, capelli a ciocche incolte, occhi azzurri, chiari. Qualcuno mentre parla e si affanna, spaurito porta fuori, trascinandola da un lato una vecchia macchina di teatro per fare il vento; un altro trascina lungo il palco in alto, correndo, una lunga catena che risuona sul legno, un altro scuote un bandone in uno scroscio di tuono. Ed escono strane scatole di latta, che mandano luce sulla facciata della casa, in ingenui colori rosso e verde e blu, illuminano, tenuti tra le mani, il corpo della donna enorme che cammina sul filo della ribalta con lombrellino a bilanciare come le equilibriste dei circhi, in un esercizio difficile.

 

Un lenzuolo fa da fantasma. Fiamme di carta velina agitate da fiati daria, alla sommità della casa ormai ondeggiante, nel movimento dei personaggi, si colorano, spariscono e si alzano.

 

Poi tutto si acqueta, nella sera più fonda.

 

Restano abbandonati gli oggetti di teatro sul palcoscenico in alto. Le lampade a terra davanti alla casa sipario, ora di nuovo immobile.

 

Sono tutti un poco "truccati e vestiti" come per una rappresentazione immaginaria: cappelli un poco più rigidi, cerone, occhi segnati appena, gesti, posizioni... parole e silenzi.

 

Per primo appare il caratterista Cromo. Appare, si ferma un attimo, poi scorge il gruppo degli scalognati, raccolto intorno al palo-circo, assume un atteggiamento di magnanima cordialità, come i comici usano quando si recano a trovare i colleghi, dopo uno spettacolo.

 

Si avvicina a Doccia e gli stringe calorosamente una mano, dopo aver deposto a terra le sue valige.

 

Sembra veramente entusiasta e sorride fino a destra e sinistra con piccoli cenni del capo d’approvazione. Cromo ä un imponente caratterista. Capelli grigi, con un ricordo di nero, pettinati allindietro, a piccolissime onde che gli ricadono ai due lati della faccia come due ali grigiastre, spelacchiate. Adopera un pettinino fitto fitto che tiene nel taschino della giacca.

 

Grosso naso, perentorio, leggermente strabico, con gli occhi azzurri dietro le lenti spesse. Quando per necessità darte se le leva, il suo sguardo diventa vacuo, lontano ed egli assume allora unaria "severa, di uomo che sa e che ha un carattere. Sbatte le palpebre come uno strano uccello notturno accecato dalla luce.

 

Veste un abito stinto di aplagas grigio topo chiaro o di unindefinibile melanzana. Cravatta a farfalla, larga e con lelastico a pois. Scarpe doubleface, bicolori, marronenero o nere bianche, traforate.

 

Porta due valigie: una rettangolare grande e un necessaire in coppia. I due pezzi sono antidiluviani, vecchissimi, legati da uno spago, pieni di etichette stinte, ma multicolori, tricromie sul giallo e rosso e verde.

 

Attestano i suoi viaggi e soste attraverso tutta la penisola per innumerevoli anni. La Torre degli Asinelli per Bologna, le palme per Tripoli, il Rialto per Venezia, la Lanterna per Genova, la Mole Antonelliana per Torino, il Duomo per Milano, lArena per Verona e aranci per Palermo. Non sa di amare ancora il Teatro, perché lo ama ancora. Nonostante tutto. E ama Ilse e in Ilse il teatro e nel teatro Ilse. E lo odia per questo.

 

E il classico attore dalle inutili, stupide ribellioni che ricadono sempre nel nulla di una solitudine senza luce. Intanto lassù appare Battaglia: è una zitella grossa, coi capelli bianchi, le sopracciglia ancora nere con gambe lunghe da trampoliere. Indossa un impermeabile biancastro, con cintura, calzoni alla zuava, con calze chiare e scarpe forse di tela che gli danno una andatura ondeggiante. Porta un basco blu in testa.

 

Porta una piccola valigia necessaire di coccodrillo nero, vecchia e sformata, ma con un ricordo di antiche fortune. Parla con una voce talvolta querula, con toni infantili e vezzosi, come una bambina punita e in cerca di affetto o qualche altra volta con scoppi improvvisi di allegria e con risate tutte ritmate sulla i, come un nitrito lungo.

 

Ha talvolta dei toni dimessi, quasi a se stesso, con un senso di inutilità nella voce, come se non valesse la pena e sta lç rannicchiato, sulla valigia che lo obbliga ad una strana posizione accucciata da scimmietta. Una scimmietta triste, dagli occhi supplichevoli e dal viso avvizzito sotto le grosse sopracciglia. Forse ricorda un vago accento veneto, molle e cantilenante. Sospira ogni tanto con sospiri lunghi, fondi e guarda in alto con qualche gesto di: è andata così, cosa vuoi farci.

 

E maldicente, butta battute brevi nei discorsi degli altri, ma senza vera malizia, per non isolarsi, per non sentirsi escluso. E ha incanti segreti, dolori segreti, smarrimenti segreti, trasalimenti veri che nessuno gli riconosce che nemmeno lui riconosce a se stesso.

 

Fa il suggeritore e recita parti da uomo e da donna. I suoi travestimenti femminili come vicina e come sgualdrina sono laidi. Nelluna parte sembra una vecchia con uno scialle intorno al capo e al viso tenuto stretto con una mano ed il viso che appare contornato dal nero, è quello di unimpudica donnona, con la bocca amara e gli occhi involontariamente maliziosi.

 

Nellaltra è unoscena caricatura di una sgualdrina da cabaret, con lustrini e calze di seta opache, sui tacchi a punta di scarpine di vernice, parrucca nera di crespo e trucco dalle labbra rosse vermiglio, occhioni blu, cerchiati e fondi e mossuzze penose di femmina che danza abbracciata ad un marinaio.

 

Quando piangerà il trucco sarà sfatto sul suo viso e ne apparirà tutto il mostruoso, il laido, losceno contro natura del teatro, ma al tempo stesso la sua terribilità, il suo misterioso, il gioco profondo del travestirsi in un altro, di essere altri, il dolore e la vergogna e la voluttà di non poter essere altro che altri.

 

Terzo è il Conte: magro e alto, biondo, con i capelli pettinati allindietro, occhi azzurri, una leggera peluria sul mento. Mani delicate.

 

Indossa un abito di tela biancastra che ha conosciuto tempi migliori. Labito è di ottimo taglio, ma ora come slavato, ricade sulle spalle, tristemente e sulle scarpe. Camicia bianca pulita e sdrucita, con rammendi sul collo. Cravatta nera sottile, sottile. Forse le basette un poco più lunghe del normale. Un panama per qualche attimo in testa gli dà un tono da attor giovane del cinema muto, qualcosa tra Rodolfo Valentino e Nils Aster, poi se lo leva subito e lo mette arrotolato nella tasca sformata della giacca. Ha labitudine a farlo. parla con voce modulata e piana, a bassa voce in mezzo alla troupe che grida come ossessiva, stridula e contorta, quasi un sussurro con le consonanti strette in mezzo ai denti.

 

Muove le mani con rapidità senza eccedere però nel gesticolare insulare. Ha un anello patrizio al dito mignolo. Scarpe nere, impolverate. Anche labito, la sacca sportiva ampia che porta, è coperta di polvere bianca. Con colpi lievi egli la fa uscire dalle maniche, dai pantaloni in volute candide. Cè un che di penoso e patetico nel suo continuo ripulirsi, assettarsi, togliersi di dosso quella traccia di mille strade maestre e di campagna che segnano ormai la sua vita decaduta. Spesso stringe tra le mani un fazzoletto appallottolato col quale si asciuga un immaginario sudore sul labbro superiore e sulle tempie. Si stringe spesso le mani una nellaltra.

 

Dietro di lui sta Diamante, la seconda donna: alta, magra, ossuta. Di lei si dice o si diceva che aveva una bella figura. Il viso cavallino, la fronte alta, sensitiva, sopracciglia folte, naso marcato. Un insieme di durezza e di fonda dolcezza che non sa apparire. Gli occhi sono grandi e femminili. Il resto stranamente ed equivocamente virile. Ha una bella voce, amara e polemica per nascondere dolore e tenerezza.

 

Indossa un tailleur chiaro, con la gonna piuttosto lunga. In testa un feltro a cloche che si stacca dal colore del vestito, calze fitte, scarpe sportive col tacco consumato, scarpe da caloche, tipo inglese, al collo sotto la giacca del tailleur un tocco femminile, un poco da zitella, fichu, o sciarpetta di velo color tenero con un cammeo o spilla (non camicia e cravatta). Guanti di pelle scuri, con bottone automatico. Naturalmente ha una camicetta sotto la giacca che qualche volta si sbottona e abbottona con un gesto nervoso. Mette le mani sui fianchi sotto la giacca spesso. porta una valigia scura, piuttosto grande che la sbilancia, per il peso. Ha gesti nervosi, ma con una certa grazia. Traspare da tutto il suo essere un disperato amore per il Conte, che non confessa di provare nemmeno a se stessa.

 

Sono questi i comici che scendono verso il gruppo degli scalognati a sinistra. Il loro tono è penosamente e fintamente entusiasta.

 

Fanno congratulazioni, sorridono con occhi disperati però ammiccano con gesti di piacere, baci sulla punta delle dita, mani che segnano nellaria godimento artistico, abilità dellinterlocutore. Ma in fondo si guardano attorno con sbigottimento e paura e per gli scalognati moderata curiosità che confina con lindifferenza. Egoismo appena mascherato da un rituale antico. Lincontro tra i due gruppi deve apparire come quasi incommensurabile.

 

Gli uni cercano di capire gli altri (i comici non capiscono assolutamente nulla degli scalognati, pensano solo al dormire, al mangiare, al teatro dove recitare. I comici devono portare un peso di tensione, di disperazione, di lotta quotidiana che urta contro il distacco tenero degli scalognati.

 

Poi si sentono le voci dellaltro gruppo dei comici col carretto. I comici entrati per primi corrono verso lalto a destra e guardano verso il basso con le spalle voltate al pubblico. Gli scalognati restano a sinistra. I due gruppi si contrappongono ancora.

 

Appare il carretto con Spizzi, Lumachi e Sacerdote e nel carretto la forma distesa di Ilse, un leggero mucchio di velo violaceo, su cui spicca il rosso dei capelli. Spizzi è lattor giovane. Tipo italico, nero di capelli, occhi ardenti, bocca segnata e carnosa, con un che di beffardo senza volerlo, denti forti, piuttosto animaleschi, segno lieve della barba sotto la pelle chiara, pettinato allindietro con capelli in fondo romantici. Indossa un abito "sportivo" a due pezzi.

 

Tutte le immagini degli archivi del Piccolo Teatro sono protette da copyright. Non è possibile il loro utilizzo senza autorizzazione
Cookie Policy